domenica 31 agosto 2014

Meditazione.

Domenica, quasi le 8 di mattina.
Mi sveglio con la sensazione di una nuova extrasistole, compagna tra alti e bassi dal 2007.
Un po' per rabbia, un po' per paura, decido di alzarmi.

Ma prima un po' di meditazione.
Penso di non aver ancora imparato a meditare correttamente, ma l'impegno che ci metto per riuscirci mi distrae dal resto, e mi fa bene, in più lo consigliano in tutti i libri che sto leggendo.

Mi siedo a gambe incrociate, schiena dritta, respiro gonfiando lo stomaco e non i polmoni.
La voce inglese che mi guida nella pratica dice di ascoltare per qualche secondo i rumori intorno: sento il ticchettio alternato dei miei due orologi in camera, quello da parete e quello della sveglia, sento il ventilatore che improvvisamente si ferma, sento il mio respiro e un rumore che proviene dal retro del bar sotto casa. Poi la voce ricomincia a parlare.

Mi svela un trucco per concentrarmi sul respiro senza per forza ripetere un vero e proprio mantra: contare. Uno, e respiro dal naso, due, e lascio uscire l'aria dalla bocca. Così, fino a dieci, e poi di nuovo, per almeno tre volte.

Senza nemmeno essermene accorta sono passati dieci minuti e la voce guida mi invita a fare un po' di stretching per riprendere il controllo del mio corpo. La sessione è finita.

Domani sera vorrei provare a meditare assieme ad altre persone, che ogni lunedì e ogni giovedì, si riuniscono in un centro buddhista in centro città per meditare un'ora. Non so bene se qualcuno mi indicherà il modo giusto per meditare o se saranno tutti troppo presi dalla loro meditazione, ma potrei provare a concentrarmi anche solo con il metodo che ho utilizzato questa mattina.

Se è vero che, come dicono i medici e come risulta dai controlli, il mio cuore sta bene, allora forse è la mia mente ad aver bisogno di attenzioni.

venerdì 29 agosto 2014

Ambizione e insoddisfazione.

Sto leggendo molto sugli argomenti "ansia" e "panico"; è utile sapere che la maggior parte delle sensazioni che provo io, le prova il 20% della popolazione mondiale, e molti altri le hanno provate e sconfitte.
Ma questa consapevolezza non basta ad eliminare il problema.

Il "Dottore non male" mi ha fatto una domanda nel suo colloquio: «che tipo di bambina era e che tipo di donna è diventata adesso? E' cambiato il suo carattere?».
Non ho esitato a rispondere che sì, il mio carattere è cambiato, in peggio.

Se dovessi pensare alla me bambina, rivedo una bambina felice e sorridente, spensierata come ogni bambina dovrebbe essere; sicuramente una bambina più spigliata, timida ma non tanto da non riuscire a fare amicizia, vergognosa ma non abbastanza da non permetterle di parlare in pubblico. Ricordo benissimo di aver "presentato" le recite di scuola senza troppe preoccupazioni, anzi la sensazione che questo ricordo mi evoca è quella adrenalinica di chi ce l'ha fatta, di chi è sicuro di sé e di quello che fa.

Da quanto tempo non provo questa sensazione? Tanto, forse troppo tempo.
E non significa che non abbia mai più raggiunto un traguardo, ma probabilmente non ho mai dato risalto al successo ottenuto rispetto alle sconfitte che mi sono capitate.

Mi sono diplomata con 95/100, e credo che la maggior parte degli studenti si sentirebbe più che appagato da questo voto, molti potrebbero anche invidiarmelo, ma non io. Non io che l'ho sentito come una sconfitta nella vittoria, perché non era 100/100.

La troppa ambizione spesso mi ostacola, e nonostante io provi a pormi degli obiettivi più bassi delle mie possibilità, per ridurre al minimo la possibilità di ottenere una delusione, resta sempre un senso di insoddisfazione e inadeguatezza.

Un altro chiaro esempio è il lavoro: ho un lavoro a tempo indeterminato da 5 anni e mezzo, uno stipendio assicurato e sempre puntuale, versamenti INPS dal primo giorno di lavoro. Ho l'esperienza, le capacità e tutti i requisiti per poter continuare a lavorare anche se qualcosa dovesse andare storto con l'attuale posto di lavoro.

Ma allora perché ho sempre l'impressione di essere ferma? Ho come la sensazione che gli altri vadano avanti, facciano carriera, si costruiscano una famiglia e vivano sereni.

A guardare bene, la maggior parte dei miei amici si è laureato, è vero, ma vive a casa dei genitori senza lavoro, o con lavori sottopagati per la loro preparazione.

Agli occhi di chi non ha avuto la mia stessa fortuna, potrei sembrare una capricciosa immatura, che si lamenta della sua condizione senza averne il benché minimo diritto. E' probabile che sia così, ma è difficile farlo capire a quella parte di me che adesso vede tutto nero intorno.

giovedì 28 agosto 2014

Il primo incontro.

Sono in anticipo.
Ho appuntamento alle 19 ma sono le 18:33 e sono già davanti al portone.
Aspetto.

Accendo Radio Rock e ascolto, nel frattempo consumo il marciapiedi facendo avanti e indietro mentre le persone passano, chi entra nel portone e chi prosegue.
In radio, Peppe Lomonaco e Matteo Catizone chiedono cosa stiano facendo gli ascoltatori per scegliere la giusta colonna sonora. Sono tentata di inviargli un sms: "sono sotto lo studio di uno psicoterapeuta che non conosco, in anticipo come ogni ansioso, che canzone merito?"; ma poi cancello tutto e non lo invio.

18:50, mi decido a citofonare.
«Terzo piano, scala A» mi annuncia la voce che risponde.
Ad accogliermi alla porta c'è lui, il Dottore, che ad occhio e croce avrà tra i 35 e i 40 anni. Non male, penso.

Mi fa accomodare in una saletta per un paio di minuti. Prendo un biglietto da visita dal tavolino basso all'angolo della stanza: è quello di un nutrizionista - biologo. Magari un giorno potrà essermi utile.

E' il mio momento, mi fa accomodare nel suo ufficio. E' una stanza molto grande, luminosa quanto basta, forse anche troppo coperta dalle tende. Ci sono due poltrone bianche, la sua scrivania a L e alcune cornici che viste di sfuggita sembrano tenere in bella vista Lauree e attestati vari.

Si siede, mi siedo.
«Vuole raccontarmi un po' quello che mi anticipava al telefono?» esordisce con un'espressione sul volto tra il serio e il "piacione".

Inizia il nostro colloquio, durato 50 minuti, in cui spiego il motivo che mi ha spinta a rivolgermi ad uno psicoterapeuta. Verso metà chiacchierata ci sciogliamo entrambi, qualche battuta, qualche sorriso per sdrammatizzare; l'immagine del freddo Dottore inizia a svanire lasciando il posto al suo lato più umano, ovviamente di un professionista che però sa come trattare determinati pazienti.

Mi fa la sua proposta: 5-6 mesi di psicoterapia settimanale. Non sono spaventata, anzi le sue parole durante il colloquio mi hanno anche rasserenata e, anche se sono cose già lette e sentite mille volte, sentirselo dire da una persona che aiuta a "guarire" dal problema dell'ansia e del panico, ha tutto un altro effetto.

Ringrazio e con la promessa di fargli sapere quanto prima, esco.